lunedì 22 dicembre 2014

affetti in carcere



Cenni sull’evoluzione legislativa delle relazioni familiari in carcere.



Nel Regolamento del 1931 il carcere veniva concepito come realtà separata dalla società civile e in cui l’isolamento, la mortificazione fisica e la durezza, avrebbero dovuto svolgere la funzione di rafforzare la capacità di pentimento del reo. I reclusi erano posti in un contesto di totale emarginazione e separazione, che andava "ben oltre le ovvie esigenze di sicurezza necessariamente destinate ad accompagnare la pena privativa della libertà". La vita dei singoli detenuti era totalmente subordinata al controllo dalla direzione generale, che nella rigida applicazione delle oltre 330 norme del regolamento carcerario, disciplinava ogni minimo particolare della vita privata. Tale legislazione individuava come unici elementi del trattamento le pratiche religiose, il lavoro e l’istruzione, mentre i colloqui con i familiari erano oggetto di una disciplina molto restrittiva. Le indicazioni che disciplinavano l’ammissione ai colloqui prevedevano che: il colloquio non potesse eccedere la durata di mezz'ora ai condannati potessero essere concessi colloqui solo con i prossimi congiunti ; ai detenuti non fosse consentito effettuare colloqui con i figli minori, in quanto vigeva il divieto ai minori degli anni diciotto di visitare gli stabilimenti. Le ammissioni ai colloqui erano sempre subordinati al rilascio di un permesso scritto, dell'Autorità giudiziaria, se trattasi di imputati, della Autorità dirigente (equivalente all'attuale Direttore) o del Ministero se trattasi di condannati. In sintonia con la concezione paternalistica dello Stato perseguita durante il periodo fascista, il regolamento carcerario del 1931 si interessava alle famiglie dei detenuti anche in un'ottica assistenzialista.

fonti:http://www.amministrazioneincammino.luiss.it/wp-content/uploads/2011/05/ARTICOLO-SU-LE-RELAZIONI-FAMILIARI-DEI-DETENUTI.pdf

venerdì 19 dicembre 2014


Il trattamento ai fini rieducativi



Il trattamento rieducativo costituisce una parte del trattamento penitenziario, in quanto nel quadro generale e nei principi di gestione che regolano le modalità della privazione della libertà personale, si inserisce il dovere dello Stato di attuare l’esecuzione della pena o della misura di sicurezza in modo tale da “tendere alla rieducazione del soggetto” ed abbattere il tasso di recidiva di chi viene rimesso in libertà dopo aver scontato la pena.

Il principio di fondo è che il detenuto non è il reato che ha commesso, ma è molto più di questo: è un individuo complesso, fatto di contraddizioni come chiunque altro, e dotato di un patrimonio emotivo, cognitivo e comportamentale che esula dagli angusti confini del delitto commesso. La rieducazione tende a valorizzare le abilità e la capacità di relazionarsi agli altri che caratterizza in ogni caso l'essere umano. Consiste nel dare al detenuto nuovi stimoli, nuove motivazioni per rifarsi una vita e reinserirsi nella società in modo costruttivo e integrato. Sotto questo profilo, l'Italia si rifà alla sua grande tradizione illuminista che prende le mosse dai contributi di illustri pensatori quali Cesare Beccaria e Pietro Verri. Una tradizione culturale che rende l'Italia e l'Europa un modello di civiltà nel mondo. Il trattamento rieducativo si attua nei confronti dei condannati e degli internati.
Nei confronti degli imputati, invece, l’ordinamento non ha previsto l’attuazione di un trattamento rieducativo e ciò perché:
da un lato, l’esistenza di una presunzione di non colpevolezza è preclusiva ad un’azione di rieducazione e di risocializzazione che presuppone, appunto, il riscontro di note delinquenziali della personalità;
dall’altro, l’elemento sostanziale riferibile alla piena ed assoluta libertà di difesa potrebbe essere posta in dubbio ove si effettuassero, sul soggetto, interventi significativi di contenuto psicologico.
Il trattamento penitenziario

Il trattamento penitenziario è in Italia un complesso di pratiche che si pongono in essere nei confronti di un certo tipo di persone, con lo scopo di "rieducare" i soggetti e restituirli alla società emendati del carattere di devianza e nella prospettiva della reintegrazione sociale.Il concetto stesso di trattamento penitenziario, a cui già accennava il terzo comma dell’art. 27 della Costituzione, viene, nel 1975, concretamente valorizzato e dettagliatamente regolamentato.Viene riconosciuta, in particolare, la necessità di pervenire, attraverso l’osservazione scientifica della personalità del condannato, alla individualizzazione del trattamento in rapporto alle condizioni specifiche del soggetto e ai particolari bisogni della sua personalità, perché si possa, con l’espiazione della pena, ottenere il risultato ottimale del recupero del reo e del suo reinserimento nella vita sociale.
In quest’ambito, l’individualizzazione non riguarda più esclusivamente il tentativo di far corrispondere la sanzione al quantum di danno cagionato e di responsabilità dell’autore, ma comprende anche le esigenze del trattamento. Di conseguenza, essa si sviluppa su due linee di azione:

  • quella che riguarda i programmi di trattamento interni all’esecuzione di ciascuna misura;
  • e quella di una modulazione della misura applicata sempre al fine di adattare la risposta penitenziaria, intesa al recupero sociale del condannato, alle effettive e attuali esigenze della personalità.

domenica 7 dicembre 2014

La nascita dell'educatore penitenziario

La figura dell’educatore per adulti in carcere è stata introdotta dalla legge 26 luglio 1975, n. 354 nell’ottica di rinnovare le strutture e l’apparato istituzionale con nuove professionalità capaci di dare contenuto reale ai principi costituzionali di “umanizzazione del trattamento” e “rieducazione del condannato” risalenti alla nostra Carta Costituzionale del 1947 di cui all’art. 27 comma 3. Dopo anni di incertezze sulle metodologie da adottare durante l’esecuzione della pena detentiva, il legislatore riconosce in capo all’educatore penitenziario degli adulti la premessa di una interazione tra conoscenze, competenze, ed abilità. E’ chiaro che le risposte ai bisogni formativi degli adulti vivono indipendentemente dal sistema organizzativo istituzionale. L’educatore, pertanto, si rivolge al soggetto adulto in formazione per riscoprire opportunità, valori, scelte, nuove interpretazioni sulla propria esistenza, sul proprio “modus agendi” riconoscendo ciascuno nella sua unicità ed irripetibilità. La professione giuridico–pedagogica, dunque, si traduce in una pluralità di ruoli professionali, che convivono spesso in condizioni di indefinitezza per cui si attribuisce un ruolo decisivo alla capacità di relazione con la quale l’educatore viene a stabilire, mediante una comunicazione competente, una interazione di reciprocità tra le varie figure professionali tale da condurre ad un reciproco riconoscimento. L’educatore penitenziario, certamente, ha rivestito un ruolo certamente attivo nel processo di affermazione del proprio intervento nel settore degli adulti. Ad oggi le competenze professionali dell’educatore riflettono la molteplicità dei bisogni educativi le cui risposte non si esauriscono all’interno dell’organizzazione del sistema penitenziario, ma caratterizzano diverse esperienze di vita, quali crisi lavorative, sociali e culturali. L’educatore degli adulti diviene la premessa per la costruzione di ponte nella comunicazione di competenze trasversali in cui si facilita l’incontro tra soggetti, pubblici e privati, con la possibilità di organizzare a livello individuale il conseguimento di obiettivi comuni. L’attività professionale dell’educatore penitenziario, pertanto, si inserisce nell’ambito dell’educazione permanente degli adulti in quanto si permette al soggetto di costruirsi nuovi spazi di significato superando istanze di conflitto, personali e sociali, per un cambiamento più intenso di sé e con la realtà in cui è inserito.

venerdì 5 dicembre 2014

Chi è l' educatore penitenziario ?

L’educatore  penitenziario degli adulti è la premessa per la costruzione di un ponte per la comunicazione in cui si facilita l’incontro tra soggetti, pubblici e privati, con la possibilità di organizzare a livello individuale il conseguimento di obiettivi comuni. Grazie a questa legge del 26 Luglio entra in scena la figura dell’Educatore, considerata “figura-chiave” del mondo carcerario, orientata verso un effettiva rieducazione e al reinserimento sociale dei soggetti condannati con l’obiettivo di ridurre la recidiva e sviluppare un adeguata sicurezza per la società. I principali compiti dell’ educatore penitenziario sono:
Attività d’osservazione;
Attività di trattamento dei condannati e degli internati e di sostegno degli imputati;
Servizio di biblioteca;
Partecipazione alla commissione che si occupa della predisposizione del regolamento interno, del consiglio di disciplina e delle attività culturali, ricreative e sportive.
La realtà carceraria richiede che l’educatore sia dotato di: strumenti professionali propri di diverse discipline quali la pedagogia e la sociologia della devianza; conoscenza di elementi di legislazione;esperienze educative significative che gli abbiano insegnato ad affrontare la relazione in un contesto di particolare problematicità e disagio, nonché a gestire i propri sentimenti. Entrare in carcere comporta, infatti, il doversi porre in relazione con persone che hanno compiuto azioni che certamente non condividiamo. Ciò però non deve condizionare l’azione educativa che ci proponiamo di attivare. Allo stesso modo, occorre mantenere la giusta distanza emotiva per evitare di essere subissati dalle numerose istanze che le persone carcerate pongono a chi presta loro attenzione. Se non si instaurano relazioni con chiari confini definiti dai ruoli, può profilarsi il rischio di non essere riconosciuti nella propria specifica funzione educativa, con il risultato di generare aspettative da parte dei detenuti di comportamenti dell’educatore “assistenzialistici” e “collusivi”. Nell’ art 82 della legge 26 Luglio 1975 n. 354, che costituisce l’ attuale Ordinamento Penitenziario, compare la prima descrizione dei compiti dell’ educatore Penitenziario.