Cenni sull’evoluzione legislativa delle relazioni familiari in carcere.
Nel Regolamento del 1931 il carcere veniva concepito come realtà separata dalla società civile e in cui l’isolamento, la mortificazione fisica e la durezza, avrebbero dovuto svolgere la funzione di rafforzare la capacità di pentimento del reo. I reclusi erano posti in un contesto di totale emarginazione e separazione, che andava "ben oltre le ovvie esigenze di sicurezza necessariamente destinate ad accompagnare la pena privativa della libertà". La vita dei singoli detenuti era totalmente subordinata al controllo dalla direzione generale, che nella rigida applicazione delle oltre 330 norme del regolamento carcerario, disciplinava ogni minimo particolare della vita privata. Tale legislazione individuava come unici elementi del trattamento le pratiche religiose, il lavoro e l’istruzione, mentre i colloqui con i familiari erano oggetto di una disciplina molto restrittiva. Le indicazioni che disciplinavano l’ammissione ai colloqui prevedevano che: il colloquio non potesse eccedere la durata di mezz'ora ai condannati potessero essere concessi colloqui solo con i prossimi congiunti ; ai detenuti non fosse consentito effettuare colloqui con i figli minori, in quanto vigeva il divieto ai minori degli anni diciotto di visitare gli stabilimenti. Le ammissioni ai colloqui erano sempre subordinati al rilascio di un permesso scritto, dell'Autorità giudiziaria, se trattasi di imputati, della Autorità dirigente (equivalente all'attuale Direttore) o del Ministero se trattasi di condannati. In sintonia con la concezione paternalistica dello Stato perseguita durante il periodo fascista, il regolamento carcerario del 1931 si interessava alle famiglie dei detenuti anche in un'ottica assistenzialista.
fonti:http://www.amministrazioneincammino.luiss.it/wp-content/uploads/2011/05/ARTICOLO-SU-LE-RELAZIONI-FAMILIARI-DEI-DETENUTI.pdf
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